il molino americano

il molino americano

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Il ‘molino Novo’, detto anche Americano, era situato sul Timavo a pochi passi dalla chiesa di San Giovanni in Tuba e dà notizia di sé già in alcuni documenti della metà del diciassettesimo secolo.
In questo fotomontaggio si possono notare le strutture del mulino e della chiesa prima e dopo il passaggio della Grande Guerra.

doppio binario di solchi carrai, a San Giovanni di Duino

doppio binario di solchi carrai, a San Giovanni di Duino

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In questa foto, in cui sullo sfondo è riconoscibile San Giovanni di Duino, sono evidenziati  due binari di solchi carrai.
Non si può determinare con esattezza se si possa trattare di uno sdoppiamento della carreggiata o di una sostituzione di un tratto eccessivamente logoro già ai tempi d’impiego della strada.
“..la via di Monfalcone per l’Istria nel 1371 venne rifatta dal Patriarca, il quale ricostruiva anche il ponte di pietra al confine di S. Giovanni. La strada era ancora del tempo romano e costeggiava la palude del <Lacus Timavi>…” (R. Pichler, ‘Il castello di Duino’ 1882 ).
Per ulteriori approfondimenti sulla viabilità romana locale, si rimanda ai contenuti del progetto SottoMonfalcone relativi alla strada romana a S. Giovanni di Duino, curato dall’associazione.


 

urna cineraria nei pressi della strada romana del Lisert

urna cineraria nei pressi della strada romana del Lisert

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Indagando le origini della rete stradale che interessò l’antico ‪Lisert, i ritrovamenti risalenti al periodo romano – materiali fittili, tombe- ne attestano il periodo di più intenso utilizzo, tenendo presente che questi percorsi furono utilizzati anche in epoche successive a quella romana.
Ciò è suffragato dal fatto che, ad esempio, il tratto diretto al ponte romano sul Locavaz era percorso dalle genti del carso sino al primo ‘900, presentando per via dell’uso intenso delle irregolarità nei solchi carrai, più logori e profondi in corrispondenza della traccia più a valle, gravata da un peso maggiore.
Nella foto, un’urna cineraria calcarea rinvenuta in prossimità della strada, in uno scatto di Abramo Schmid della Commissione Grotte di Trieste.


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foto aerea del lacus Timavi

foto aerea del lacus Timavi

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Questa foto aerea che riprende dall’alto il porto del Timavo e che reca la data del 26 maggio 1954, è opera dell’Istituto Geografico Militare.

Si notano:

A, l’Isola di Sant’Antonio, oggi quasi interamente spianata, sul cui versante settentrionale s’intravvede il complesso delle Terme Romane.

B, l’Isola della Punta (o Amarina), oggi scompara e grossomodo inclusa nel complesso industriale Mar-Ter.

C, la scomparsa Isola di Belforte.

Tra l’isola A e B s’intravvede chiaramente -contrassegnato dalle frecce bianche- l’istmo semisommerso che le collegava.

D, zona delle risorgive del fiume Timavo.

E, lo sbocco del canale del Locavaz.  Gli asterischi gialli indicano il cordone litoraneo che, tra porto Ròsega e la foce del Locavaz+Timavo, ha spostato in epoca recente la linea di costa, oggi parzialmente delimitata dalla cassa di colmata del Lisert.

Timavo, foce

Timavo, foce

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In questa splendida panoramica raffigurante la foce del Timavo, le tracce di un antico passato e la quiete del luogo palustre si confrontano con i cenni di una modernità che, di lì a poco, ne avrebbe trasformato radicalmente l’aspetto.

Con delle placide anse appena accennate, il Timavo incontra il mare in prossimità del ‘balo’, l’affioramento alluvionale che si può notare sulla destra, un tempo sede insulare del castelletto veneziano del Bel Forte.

Sulla sinistra del corso d’acqua si nota chiaramente l’assenza del Villaggio del Pescatore, edificato nei primi anni ‘50, mentre in lontananza, oltre le zone umide, un battello a vapore traina una chiatta, pennellando il cielo di questa foto con un lungo sbuffo di fumo.

foto: 1°marzo 1911 – foce del Timavo dal sommo dell’Isola della Punta (Civ. Musei di Storia ed Arte di, fotografo Alberto Puschi).
L’isola della punta (o Quota 12) fu sbancata negli anni ’70 per favorire l’insediamento dell’industria, al Lisert.

Nei secoli, fu appellata anche come anche Monte della Fornace, Amarina e Montagnola.

la chiesetta di Sant’Antonio al Lisert

la chiesetta di Sant’Antonio al Lisert

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In questa foto ricolorata, scattata sul finire dell’800 dalla sommità della collinetta calcarea di Sant’Antonio che un tempo appartenne una delle Insulae Clarae, si nota la chiesetta dedicata al Santo, cdistrutta nella prima guerra mondiale durante la X battaglia dell’Isonzo.
Di seguito, una suggestiva descrizione tatta dal libro del Pocar ‘Monfalcone e suo Territorio’.

<<Il Monte di Sant’ Antonio – adorno in primavera di bei ciclamini – porta oggi tal nome perché sullo stesso v’ è la chiesuola dedicata a Sant’ Antonio Abate.
Colassù si ammira sull’altare laterale, a destra di chi entra, un quadro rappresentante la Vergine, opera di buon pennello, e che si ritiene della scuola del Bassano.
Anche gli affreschi che coprono le pareti sono pregevoli, specialmente la Cœna Domini a sinistra di chi entra, opera del 1400.
Si deve credere che questa piccola chiesa sia stata fabbricata dai fedeli quando infieriva la malattia del fuoco sacro perché a tal Santo si ricorreva per la guarigione. – La sorte subita, nell’anno 1806, dalle altre chiesuole di Monfalcone, toccò pure a questa: cioè fu chiusa.>>

Per approfondire la figura del Santo: la statua lignea di Sant’Antonio Abate, a Monfalcone

tra acque e miti del fiume Timavo (I parte)

tra acque e miti del fiume Timavo (I parte)

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Era trascorso un cinquantennio da quando per la prima volta le legioni romane di Aquileia si erano accampate presso il porto di Timavo sotto l’Ermada per la conquista dell’Istria, e il console Gaio Sempronio Tuditano, dopo aver domato i Giapidi e i Taurisci e ricacciato tra le montagne i Carni, offerse in memoria del trionfo celebrato a Roma per la fulminea vittoria il bottino di guerra al nume del Timavo e ne restituì il culto, affidandolo a un collegio sacerdotale di magistri. Autore della lapide dedicatoria in versi saturnii, che si conserva nel Museo di Aquileia, è probabilmente lo stesso Tuditano, conosciuto anche nel mondo delle lettere come storiografo.

frammento di una grande base recante il nome del console Tuditano, rinvenuto nel Castello di Duino e probabilmente proveniente dal vicino sacello del Timavo

Il Timavo, lo dice il vocabolo preromano, è un antichissimo nume fluviale indigeno, confuso poi per influenze greche d’oltremare con l’eroe tracio Diomede, domatore di cavalli: ancora ai giorni nostri si usava tenere a S. Giovanni del Timavo la fiera dei famosi equini dell’allevamento dei Duinati, che, come quelli della razza lipizzana del Carso, si facevano discendere dalle mitiche mandrie diomedee.
Un altro mito antichissimo, il passaggio degli Argonauti, adombra poeticamente l’importanza commerciale delle strade che congiungevano il nostro golfo con le vie acquee del Danubio e dei suoi affluenti, mito che dai geografi greci fu frainteso e condusse alla strana concezione di un duplice corso dell’Istro-Danubio, di cui il Timavo era creduto un ramo.
Il fenomeno sorprendente del fiume Timavo che sgorgando con polle abbondanti dall’alto delle rocce si gettava con immenso fragore nel mare, sì da parere non foce ma sorgente, diede origine al culto primordiale, culto che visse attraverso i secoli e si trasformò poi in quello del Santo Battista.
Il caso si ripeté in un’altra località del suburbio tergestino, a San Giovanni o S.Pelagio di Guardiella, dove le acque dello stesso Timavo sotterraneo, che ivi filtrano attraverso la rupe, furono raccolte dai Romani e condotte in città, mentre per un secondo acquedotto tergestino i Romani si servirono della Fonte Oppia nel villaggio di Bagnoli in Val Rosandra, il quale ha pure la sua chiesa intitolata a San Giovanni.
(continua)


Nella foto di copertina, opera di Elena Clausero, la riproduzione dell’aretta del I secolo, proveniente dal Castello di Duino ma originariamente posta a breve distanza da una delle bocche da cui il fiume Timavo erompe dal suo percorso ipogeo, recante l’iscrizione dedicatoria al culto fluviale del Timavo [Temavo /voto/[suscep]to/…], il cui originale qui sotto osservabile è conservato presso il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann di Trieste.

epigrafe con dedica al fiume Timavo divinizzato

a cura della prof.ssa Marisa Bernardis


tra acque e miti del fiume Timavo (II parte)

piccolo viaggio nel termalismo classico (I parte)

piccolo viaggio nel termalismo classico (I parte)

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Le prime terme pubbliche furono costruite a Roma da Augusto nel 25 a .C ..
In seguito ne sorsero molte altre, sempre più grandi e lussuose. Le terme costruite da Nerone presentavano degli ambienti disposti simmetricamente rispetto ad un asse centrale e una pianta simile ebbero quelle di Tito e di Traiano.
L’architetto di queste ultime fu Apollodoro di Damasco, lo stesso che costruì il Foro di Traiano.
Egli arricchì lo schema circondando il corpo centrale di un grande recinto e questa tipologia di pianta divenne canonica: fu difatti ripresa in tutte le successive terme, quelle di Caracalla, di Decio, di Diocleziano, di Elena (madre di Costantino).
C’erano poi terme private, più piccole, ma con una clientela più selezionata.
L’ingresso costava una cifra minima, se non era addirittura gratuito e gli impianti rimanevano aperti dal primo pomeriggio all’ora di cena.
Vi si riversava una folla di frequentatori d’ambo i sessi e solamente in qualche caso erano previsti turni differenziati.
Negli edifici più grandi si poteva arrivare a tremila presenze quotidiane e di norma si seguiva un itinerario fisso.


 

piccolo viaggio nel termalismo classico (II parte)

piccolo viaggio nel termalismo classico (II parte)

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All’interno delle terme, di norma si seguiva un itinerario fisso.
Sulla pianta delle Terme di Caracalla esso è così ricostruito: dall’ingresso si passava nello spogliatoio, con annesso guardaroba, da cui poi si accedeva poi alla palestra scoperta, dove ci si ungeva e si facevano esercizi fisici.
Si guadagnava quindi una serie di sale più piccole, una delle quali era il bagno turco (laconicum), dove si sudava abbondantemente. Quindi si arrivava alla grande vasca circolare con acqua calda (calidarium). Di qui si passava in un ambiente di dimensioni più contenute, con piccole vasche d’acqua tiepida (tepidarium) e infine nella grande ‘hall’, lussuosamente decorata e non riscaldata (frigidarium).
L’itinerario terminava con un tuffo nella piscina scoperta (natatio).
Sotto il livello del suolo c’era un’estesa rete di ambienti di servizio, ove erano collocati i forni che scaldavano contemporaneamente l’acqua delle piscine e l’aria che circolava nelle intercapedini sotto i pavimenti (hipocausta) e nelle condutture dietro le pareti (concamerationes). Attorno al corpo centrale, all’interno del recinto, c’erano giardini, portici, biblioteche, sale per conferenze e spettacoli.
Alle terme si andava, dunque, anche per passeggiare, discutere di affari o di filosofia, per una semplice chiacchera o per ammirare le opere d’arte che vi erano esposte e che ne facevano dei veri e propri musei.
Non mancavano, naturalmente, le tavole calde per rapide consumazioni.

In foto: stratificazioni di passato e futuro nei sotterranei delle terme romane di Monfalcone.

mitreo

mitreo

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I misteri mitraici ebbero enorme diffusione nell’Impero Romano durante i primi secoli del Cristianesimo.

Le pratiche per essere ammessi ai misteri erano assai laboriose e difficili a compiersi.
La prima di queste pratiche pare consistesse in un esercizio di resistenza fisica: l’aspirante doveva attraversare a nuoto più volte un ampio tratto di mare e sopportare poi lunghi digiuni e penitenze maceranti a cui seguiva poi ‘il battesimo’ e il marchio a fuoco sulla fronte del nuovo adepto, che, con speciali cerimonie, veniva proclamato ‘soldato di Mitra’.

Sul soffitto dell’ipogeo di Duino si nota un’apertura circolare comunicante con l’esterno, che fa pensare ad una specie di pozzo: probabilmente all’esterno veniva sacrificato il toro, il cui sangue pioveva sull’adepto, che si trovava nel vano sottostante. Difatti si sono rinvenute nel terreno alcune schegge d’osso, probabilmente appartenute a un toro sacrificale.

I gradi di iniziazione erano sette: ‘corvo’ (corax), ‘fratello nascosto’, soldato (miles), ‘leone’ (leo), persiano (persa), ‘corridore del sole (elio dromos), ‘padre’ (pater).

I Padri avevano un capo,specie di Pontefice Massimo, che veniva chiamato ‘Pater Patrum’.

L’avversione del cristianesimo a questi riti misterici non ne permise una successiva, approfondita conoscenza.
a cura della professoressa Marisa Bernardis

Bibliografia: Dante Cannarella:Guida del Carso triestino; Enciclopedia Treccani; D’Alesio:Dei e Miti; Scotti:I Pirati dell’Adriatico.