S’inaugura a Borgo Colmello di Farra d’Isonzo l’articolato iter che, in seno alla parte dedicata all’archeologia del progetto Strade & Incanti curato dall’associazione in stretta collaborazione con la locale amministrazione comunale, intende portare alla definizione del primo nucleo di un museo archeologico dedicato alla collezione di reperti riferibili al complesso del ponte romano sull’Isonzo in località Mainizza, alla stazione itineraria e alla prossima necropoli.
Nel corso dei mesi a venire, le varie fasi di ricerca, indagine e recupero dei beni da musealizzare saranno illustrate parallelamente alla storia dei luoghi, delle vicissitudini e dei personaggi noti e meno noti che, nel corso del tempo, si son posti a vario titolo in relazione con questo territorio.
In un maggio inoltrato di qualche anno addietro si è deciso d’inaugurare con una gita in barca una stagione balneare che si preannunciava promettente.
Come meta, i banchi sabbiosi litoranei che da Grado, con intermittenza definita da mareggiate, canali lagunari e dal costante lavorio dei venti, definiscono il paesaggio costiero sino a Lignano.
Durante la passeggiata sul bagnasciuga cesellato da ogni storia che il mare può raccontare, una singolare sagoma rotondeggiante catturò immediatamente l’attenzione: non si trattava certamente d’una geometria studiata dalla natura.
Liberando l’oggetto dall’abbraccio sabbioso, grande fu lo stupore quando si capì di trovarsi al cospetto d’un manufatto sicuramente non recente.
Dopo averlo consegnato alla conservatrice del Museo Archeologico della Laguna di Marano per esaminarlo, si scoprì che avevamo fortuitamente rinvenuto un boccale in ceramica ingobbiata invetriata e dipinta, decorato a motivi floreali e vegetali, databile al XVII-XVIII secolo.
Un piccolo-grande ritrovamento che restituisce l’emozione e il senso della scoperta di un oggetto del passato e che prossimamente sarà musealizzato.
La notte di San Giovanni Battista cade tra il 23 e il 24 giugno, al dischiudersi della stagione più calda dell’anno, quando il sole è al suo apice e dà forza e vigore alla natura e a tutte le creature. Èconsiderata una notte carica di magia e tramandata da centinaia di anni con riti e usanze popolari dove culti e incantesimi si mescolano sotto la luce delle stelle.
Antiche credenze narrano che in questa notte ‘cadde la rugiada degli Dei’, raccontando che il solstizio d’estate fosse la porta attraverso la quale gli Dei facessero passare i nuovi nati sotto forma di rugiada.
I Romani dei primi secoli raccoglievano l’acqua formata dalle gocce di rugiada come liquido miracoloso donato dagli Dei portatori di fortuna, prosperità, benessere e salute.
Altre credenze narrano che le streghe si riunissero sotto un albero di noce e con i frutti ancora acerbi e pieni di rugiada preparassero un liquore miracoloso. In età precristiana il breve periodo del solstizio che coincide con la nascita di San Giovanni Battista, era considerato sacro e donava particolare forza e potere a tutte le erbe sulla terra bagnate dalla rugiada.
Di tutte queste credenze a noi abbiamo conservato l’usanza di preparare per il 24 giugno l’Acqua di San Giovanni, il cui rituale segue delle precise indicazioni. Durante la vigilia, ossia il 23 giugno, bisogna raccogliere erbe e fiori tipici di questa stagione, possibilmente in luoghi incontaminati .
Si raccolgono ginestre, papaveri, fiordalisi, petali di rosa, caprifogli, menta, iperico, salvia, ruta, malva, lavanda,camomilla, timo, origano, basilico, melissa, artemisia, finocchio e avena.
Al tramonto, tutte le erbe raccolte si immergono in una ciotola colma d’acqua pura che si pone ai raggi lunari.
La luce della Luna e la rugiada mattutina estraggono dai fiori i principi benefici di cui l’acqua si carica.
Con questa, al mattino ci si può bagnare, lavare il viso e il corpo, offrirla a parenti e amici.
La tradizione vuole che quest’acqua profumata preservi dalle malattie, purifichi la pelle, favorisca la ricrescita dei capelli e la fertilità. L’acqua ottenuta si può conservare in una bottiglietta e utilizzare durante l’anno oltre che per la sua magia anche per profumare l’ambiente.
Un’altra usanza antica tipica della notte di San Giovanni sono i falò.
Già i Fenici la celebravano accendendo fuochi purificatori dedicati al dio Moloch e ancora oggi è considerata la notte dei mille fuochi in varie regioni d’Italia ma anche in Europa.
Carica di magia e presagi questa è la notte che decide i destini dell’intero anno solare, pratiche divinatorie, lavacri di purificazione, falò rituali, raccolta notturna di rugiada ed erbe.
Tra le tante ipotesi formulate sulla notte di San Giovanni è da ricordare quella in cui si afferma che il Cristianesimo integrò alla propria liturgia le due feste pagane del 24 giugno e del 25 dicembre, corrispondenti al solstizio estivo e invernale e che, in epoca romana, con la denominazione di Fors-fortuna e Sol invictus erano state parte integrante della religione del Sole.
Tantissimi i consigli e le prescrizioni legate a questa notte: esporsi alla rugiada curerebbe dal male mentre sarebbe opportuno il non catturare le lucciole, in quanto simbolo delle anime che cercano refrigerio. Raccogliere l’aglio, inoltre, potrebbe aumentare i guadagni durante l’anno, favorendo prosperità e benessere.
Come tradizioni culinarie a San Giovanni si mangiano le lumache, considerate di buon auspicio in quanto le ‘corna’ di queste allontanano le avversità.
In questa giornata si prepara anche il nocino, ottenuto dall’infusione di noci non ancora mature nell’alcol, con l’aggiunta di cannella e chiodi di garofano e lasciato macerare per due mesi.
Filtrato e conservato in bottiglie di vetro, avrebbe la proprietà di donare forza nei momenti di bisogno.
a cura di Mariaelena Sandri
nelle foto di Lucio Nanut e Flavio Snidero, la chiesa di San Giovanni in Tuba, presso le risorgive del fiume Timavo
Per incrosar cum ti a punta de spada, De l’altra parte la punta in lo petto t’ò fermada.
L’immagine sopra riportata illustra tecniche di combattimento con la spada brandita a due mani (dal manoscritto Flos duellatorum di Fiore de’Liberi, 1409 – J.P. Getty Museum di Los Angeles)
Non pubblichiamo le foto della spada restaurata in quanto invitiamo il lettore a vederla di persona presso il Museo della Cantieristica di Monfalcone, ove è esposta in una teca per la prima volta dopo l’accurato restauro curato da Daniele Pasini presso il Museo Archeologico Nazionale di Aquileia. Potrà essere ammirata sino a domenica 28 giugno 2020, in seno alla mostra fotografica ‘Una Storia per Immagini’, facente parte del progetto SottoMonfalcone, curato dalla nostra associazione.
Per informazioni sugli orari clicca QUI
Nell’anno 2014 son iniziati a Monfalcone i lavori di ristrutturazione del Municipio e si son protratti per qualche tempo: le indagini archeologiche hanno così potuto intercettare parte del mondo medievale occultato dal passaggio dei secoli.
Un mondo che ha saputo restituire una serie di significative testimonianze sulle diverse fasi di frequentazione dell’area, coprendo un periodo di tempo compreso tra il dodicesimo e il diciannovesimo secolo.
Durante l’indagine dei livelli cronologicamente riferibili alla metà del XIV secolo è stata intercettata l’officina di un fabbro, per via del ritrovamento di numerosi rottami ferrosi probabilmente destinati alla rifusione, come chiavi, lame, chiodi…ma non solo…
L’emozione dev’essere stata grandissima nel momento del ritrovamento di una spada d’un metro e venti di lunghezza, in uno stato di conservazione tale da permetterne un recupero conservativo che l’ha recentemente restituita al pubblico in tutto il suo splendore, nonostante si trovasse in quell’antica bottega in quanto ormai giunta al termine del suo ciclo di utilizzo. Si tratta di un esemplare diffuso nell’Europa del XIV secolo, di tipologia ‘a una mano e mezza’, cioè un ibrido tra un esemplare a una mano, utilizzato dalla cavalleria, e quello in dotazione ai soldati a piedi, brandeggiabile a due mani.
la spada medievale di Monfalcone
Nello specifico tecnico, se la guardia era la sezione compresa tra l’impugnatura e lama e ricopriva funzione di protezione per le mani, mentre il pomolo costituiva la parte terminale dell’arma, rivestendo anche questi una funzione potenzialmente offensiva, l’impugnatura o elsa nella spada a una mano e mezza doveva assicurare lo spazio per tenere ambo le mani.
Un’arma decisamente dotata dunque di versatilità e di grande potenziale offensivo.
E che presenta un certo nesso filologico con la nostra Regione.
Risale difatti approssimativamente al 1410 la pubblicazione del Flos Duellatorum (Fior di Battaglia), un vero e proprio trattato di scrima (scherma storica) scritto dal maestro Fiore de’Liberi da Premariacco e contenente la descrizione di tutte le tecniche di combattimento di quel periodo.
Una descrizione istoriata da numerose illustrazioni, dove l’importanza riservata al combattimento con la spada a una mano e mezza è del tutto rilevante.
Fiore dei Liberi nacque probabilmente a Civitatis Austriae (Cividale), nel 1350.
Figlio di Benedetto dalla nobile casata dei Liberi di Premariacco, probabilmente appartenne a quella classe nobiliare cavalleresca liberata da vincoli di servitù, ma non di devozione, alla signoria di più alto rango.
Si suppone che il Flos sia stato scritto a Ferrara, ove il magister prestava opera come precettore di scherma presso la corte di Niccolò III d’Este.
Il trattato ci è pervenuto in tre esemplari, due dei quali sono conservati al Morgan Library & Museum di New York e Getty Museum di Los Angeles e sono la versione in prosa del manoscritto, mentre quello custodito presso la collezione voluta dall’esponente della Scapigliatura Carlo Alberto Pisani Dossi e redatto in versi, rappresenta l’unica versione poetica, anche se giunta ai giorni nostri come copia dell’originale.
La particolarità di questa stupefacente opera consiste nel fatto che le immagini rappresentate e che illustrano i vari momenti dell’ingaggio e del combattimento, sono correlate da descrizioni che le rendono ‘vive’, facilitando l’apprendimento della base tecnica raffigurata.
Inoltre, è certo che la committenza dell’opera si sia servita, a supporto dei precetti del maestro, di un abile artista che ha saputo restituire delle illustrazioni di grande qualità plastica ed eleganza.
Il Flos Duellatorum, essendo un trattato sulle tipologie di combattimento dell’epoca e non solo su quanto relativo all’utilizzo della spada, vede rappresentate anche quelle a mani nude, con daga, con lancia, a cavallo eccetera e si pone ancor oggi come una pietra miliare a livello mondiale sia per l’apprendimento delle tecniche anche morali a fondamento della nobile arte della scherma, sia per l’approfondimento di un affascinate passato che, come nel caso della spada di Monfalcone, disvelandosi a poco a poco fa ancora stupire di sé.
Aqui finisse el fior de l’arte de lo armiçar, Per che modo uno homo l’altro pò contrastar, Facto per Fior furlano de meser Benedecto; Chi l’à chognosudo ben pò creder suo decto
La valle del torrente Rosandra si trova a breve distanza da Trieste ed è frequentata sin dal neolitico, per via della presenza di molte cavità naturali a sviluppo orizzontale.
È attraversata da un acquedotto romano risalente al I secolo dopo Cristo e visibile ancor oggi in alcuni tratti, costruito per canalizzare le acque del torrente dalla fonte, fino all’abitato di Tergeste, con un percorso di circa diciassette chilometri.
Utilizzato a fasi alterne, ancora in pieno ‘700 s’ipotizzò di ripristinarne la funzionalità, tanto era ben conservato.
Recentemente sono state condotte alcune indagini archeologiche, dirette dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia, che hanno messo in luce un nuovo tratto di circa cento metri di lunghezza, di cui riproponiamo qualche immagine.
<<Vissi laggiù tutta un’epoca di straordinaria esaltazione dovuta, in parte, all’influenza di un gruppo di luogotenenti che avevo intorno. Provenienti dalle remote guarnigioni d’Asia, erano venuti a conoscenza di strane divinità tra le quali il culto di Mitra, allora poco conosciuto, che mi attirò per qualche tempo con le esigenze di quell’arduo ascetismo che tendeva duramente l’arco della volontà con l’ossessione della morte, del ferro e del sangue che elevava a livello di spiegazione del mondo i banali disagi della nostra esistenza di soldati.
Nulla poteva contrastarmi di più con le opinioni che cominciavo a formarmi sulla guerra.
Ma quei riti barbari che creano tra gli affiliati legami di vita e di morte, lusingavano le fantasticherie più recondite di un giovane impaziente del presente, incerto dell’avvenire e proprio per questo, accessibile agli Dei.
Fui iniziato in una torre di legno e di canne in riva al Danubio, fu mio padrino Marcio Turbo, un compagno d’armi. Ricordo che il peso del toro agonizzante fu lì lì per far crollare il pavimento a graticci sotto cui stavo per ricevere l’aspersione del sangue.
In seguito, ho riflettuto sui pericoli che possono rappresentare per lo Stato, sotto un principe debole, siffatte società segrete e ho finito per infierire contro di esse.
Ma confesso che quando si è in presenza del nemico, esse conferiscono agli adepti una forza quasi sovrumana. Ciascuno di noi era convinto di sfuggire ai limiti della propria umana condizione; si sentiva sé stesso e l’avversario simultaneamente, simile al dio di cui non sa più se muore nelle spoglie di bestia o se uccide sotto forma umana.
Quei sogni bizzarri che a volte oggi mi sgomentano, non differivano poi profondamente dalle teorie di Eraclito sull’identità dell’arco e del bersaglio.
Allora mi aiutavano a tollerare la vita, la vittoria e la sconfitta si mescolavano, si confondevano, erano raggi diversi di una stessa luce solare.
Quei fanti daci che calpestavo sotto gli zoccoli del cavallo, quei cavalieri sarmati abbattuti in seguito nei corpo a corpo, dove i nostri cavalli impennati si mordevano il petto, m’era tanto facile colpirli in quanto mi identificavo con loro. Se fosse rimasto abbandonato sul campo di battaglia, il mio corpo spoglio dalle vesti non sarebbe stato tanto diverso dal loro. Identico sarebbe stato l’urto dell’ultimo colpo di spada.
Ti confesso quei pensieri singolari, tra i più segreti della mia vita, e un’ebbrezza strana, che non ho mai più ritrovata esattamente sotto quella forma.>>
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Passo tratto dal libro ‘Memorie di Adriano’ di Marguerite Yourcenar, scritto sotto forma di una lunga epistola indirizzata dall’anziano imperatore Adriano, ormai al termine dei suoi giorni, al diciassettenne Marco Aurelio, che poco dopo diverrà suo successore per adozione.
Sotto Traiano, predecessore di Adriano, l’Impero romano raggiunse la sua massima espansione, grazie alle vittoriose campagne militari in Dacia, Armenia, Assiria, Mesopotamia e Arabia.
Nelle foto, il Mitreo di Duino.
In questa foto datata 1965, si nota il Monumento ai Caduti della Grande Guerra, inaugurato nel 1923 e in seguito smontato in blocchi per lasciar spazio agli stabilimenti della nascente area industriale del Lisert.
Fu poi riassemblato dapprima in zona Tavoloni, a lato della strada statale e poi nell’area del Parco della Rimembranza.
La sua collocazione definitiva lo vede dal 2003 a breve distanza dalle Terme di Monfalcone, in via Timavo.
L’eccezionalità della foto, che lo ritrae nella sua primitiva collocazione, risiede nel fatto che sia stata scattata dalla sommità del monte ‘della Punta’, la ‘quota 12’ che designava il punto apicale di una delle due Insuale Clarae di delimitazione dell’antico lacus Timavi, spianate in parte o totalmente -come in questo caso- per ottenere nuovi terreni da destinare all’industria.
Dalla foto si notano sulla sinistra pure i ruderi della fornace presente in zona e il Locavaz.
Il monumento è realizzato in blocchi di pietra d’Aurisina, su progetto dell’architetto Guido Cirilli che per molti anni è stato insegnante e anche presidente dell’accademia di Belle Arti di Venezia e direttore della Scuola superiore d’Architettura.
(dalla monografia ‘La mancata conquista di quota 28 del Timavo nel 1917’ di Abramo Schmid)
La definizione di un’articolata rete stradale rappresentò per Roma la vera e propria spina dorsale del suo sistema politico, fungendo sia da supporto al controllo dei punti più periferici, sia da vettore per la circolazione delle genti, dei beni e delle idee.
A partire dal secondo secolo a.C., nel settentrione d’Italia si sviluppò un complesso viario notevole, del quale Aquileia rappresentava uno dei nodi più orientali.
La metropoli romana era difatti raggiunta a occidente dalla via Annia, che la collegava ad una stazione iniziale -probabilmente Adria– dopo aver attraversato Padova, Altino e Concordia.
Dalla città, poi, si dipanava una via che raggiungeva la stazione di Fonte Timavi e, subito dopo, si biforcava, raggiungendo Tergeste col percorso meridionale e Tarsatica (Fiume) con quello settentrionale.
Per dare un’idea dei profondi mutamenti occorsi al territorio, in questa foto è riportata la via Annia nel punto in cui, con un ponte lungo circa 44 metri, attraversava il Canalat-Piavon vecchio, uno degli antichi rami del Piave.
Le pianure a cavallo tra Veneto e Friuli, al tempo, presentavano difatti un aspetto assai dissimile da quello odierno, interessato da molti interventi di bonifica: fiumi, canali e paludi erano continuamente presenti sul percorso viario, che per lunghi tratti costeggiava direttamente le lagune.
Di quest’opera, riemersa dalle campagne in seguito a scavi del ’49, si notano in particolare le basi dei piloni di profilo cuneiforme, scolpite nell’arenaria e poggianti su palizzate lignee, conformati per fronteggiare al meglio l’impeto della corrente e minimizzare la creazione di vortici al suo passaggio, garantendo robustezza e stabilità al manufatto.
Una situazione simile a quella esistente in prossimità di San Polo di Monfalcone, presso Ronchi, ove un ramo dell’Isonzo veniva oltrepassato da un ponte di cui ancora oggi esistono numerose testimonianze…
Questa mappa, datata ‘Triest, den 27 März 1824’, è opera della Kustenlandische Baudirection [1], la direzione delle opere d’ingegneria civile della regione costiera dell’Impero austroungarico.
Si tratta della proposta di pianificazione di una nuova strada che avrebbe dovuto unire Duino a Monfalcone attraversando la palude del Lisert.
Partendo da sinistra, si nota la Monfalconer Baadhause [2] (le terme), al limitare del Monfalconer Moorgründe, il ‘fondale marino’ con cui si designa la palude del Lisert e, quindi, l’antico lacus (in questo caso definito con una forma non più in uso).
La vecchia strada, quella esistente, scavalla la sommità della Montagnolla della Punta [3]mentre le due previste l’aggirano: una, quella in rosso, tira dritta e attraversa il Locavaz Bach (rio del Locavaz) [4] per continuare dem Thurn gehörige Gründe [5], ossia fondi appartenenti ai della Torre, giungendo a San Giovanni di Duino [6].
L’altra strada prevista, in giallo, invece,segue un corso più meridionale rispetto a quella già esistente. Difatti, attraversando d’un tiro le foci del Timavo e il paludo, arriva nel Gemeinde Grad Bratina [7], ossia nel comune del castello di Bratina.
Da qui in poi, la strada rossa continua da San Giovanni e s’innesta nel vecchio percorso mentre quella gialla prosegue il suo andamento rettilineo attraversando il bosco della Cernizza.
Ambo le strade si tengono al di fuori della riserva di caccia dei conti della Torre, qui annotata come Thiergarten Cernizza Graf von Thurn gehorig [8].
A Duino, in prossimità del porto (Haven) si nota il Salz-Magazin, l’Altes Schloß e il castello ‘Nuovo’ [9].
Situation der zur Abbauung der sehr steilen und der Uberschemmung ausgesetzen Strassen Strecke zwischen Duino und dem Monfalconer Baadhause in Vorschlag gebrachten Strassenzuge— Situazione delle erte e dei guadi posti tra le terme di Monfalcone e Duino che s’incontrano lungo i percorsi delle strade proposte | Archivio Piani, 27/03/1824).
nota: tutti i termini in tedesco sono riportati tal quali dalla mappa
In quest’immagine abbiamo un po’ giocato, sovrapponendo un’ortofoto aerea del 1954 a una schermata tratta da Google Earth, che raffigura la situazione attuale.
Il risultato finale è molto curioso in quanto restituisce un’idea di quello che un tempo fu il cordone insulare che delimitava la laguna litoranea del ‘lacus’ dal mare aperto.
Questa laguna era punteggiata da alcune emergenze insulari, note come l’isola di S. Antonio (A) e l’isola della Punta (B) , che costituivano le più settentrionali delle insulae clarae citate da Plinio il Vecchio.
Si trattava nello specifico di un’unica isola, il cui cordone centrale risultava sommerso durante le alte maree, conferendole l’aspetto di due isole distinte.
In ‘C’ è evidenziato il ‘balo’, l’affioramento alluvionale sito in prossimità della foce del Timavo, che verosimilmente cela le rovine dello scomparso castello veneziano di Belforte.
Le terme romane di Monfalcone giacciono al limitare settentrionale dell’isola di Sant’Antonio, oggi quasi del tutto scomparsa a causa delle esigenze imposte dal progresso industriale del ventesimo secolo.
Un progresso che ci ha consegnato ancora alcuni piccoli cenni di quest’isola, visibili nelle foto sotto riportate, ma che ha definitivamente cancellato Quota 12, ossia l’isola della Punta che, però, ci ha comunque affidato importantissime testimonianze del passato, come la villa della Punta e l’imbarcazione d’epoca romana, oggi musealizzata (ma al momento non visibile al pubblico) presso il Museo Archeologico Nazionale di Aquileia.
In una radiosa mattinata settembrina del 1756, l’austriaca Sagrado e la veneziana Fogliano, dopo una lunga ed articolata serie di sopralluoghi e trattative protrattesi per un quadriennio, festeggiarono assieme la definizione ultima dei confini di Stato in tutta la Patria del Friuli e nell’Istria, tra Repubblica di Venezia e Arciducato d’Austria.
Si riunirono “il Senatore Giovanni Donato, il Magnifico Luogotenente della Patria del Friuli Lorenzo Donà con il Provveditore Generale di Palmanova Tomaso Querini, il Conte Feldmaresciallo Ferdinando di Harrsch col Segretario della Commissione ai confini, Antonio de Salzfeldt ed altri dignitari austriaci”.
“Perciò si avviarono poi in magnifico corteo alla chiesa di Santa Maria, dove venne cantato il Te Deum di ringraziamento, mentre al di fuori rimbombavano le scariche degli archibugi e delle colubrine. Quindi i personaggi si separarono, ritornando il Generale a Gorizia per proseguire per Vienna, mentre il Senatore s’imbarcò a Monfalcone su una galea, per raggiungere Venezia e riferire a Sua Serenità il Doge Francesco Loredano“.
a Dio Ottimo Massimo Adiutore a Maria Teresa Romana Imperatrice d’Ungheria di Boemia Regina Arciduchessa d’Austria a Francesco Loredano Doge di Venezia per i confini incerti dalla Pace di Wormazia fino a questo giorno controversi infine felicemente risolti agli ordini dei principi e per i desideri dei popoli Ferdinando Filippo conte di Harrsch Consigliere intimo dell’Augusta Feldmaresciallo e Colonnello di Reggimento di Fanteria e Giovanni Donato già Savio all’Ordine del Consiglio Senatore Veneto Arbitri dei confini regolati Posero
Nell’anno 1924, all’atto della parziale ricostruzione del castello di Duino a seguito della devastazione provocata dalla guerra, furono rinvenuti diversi frammenti di lastre con epigrafi, colonne e altro materiale d’epoca romana, probabilmente proveniente dal vicino sacello del Timavo e successivamente reimpiegato nella costruzione più antica delle torri del mastio.
Una torre che è comunemente ritenuta d’epoca romana e che, pur non essendo questa una tesi facilmente dimostrabile, comunque rappresenta una parte costruttivamente a sé stante, nelle strutture del castello del XIV secolo. Difatti è orientata in maniera differente rispetto alla disposizione generale degli altri edifici e torri ed è costruita con una tecnica a blocchi squadrati sovrapposti, dissimile da quella impiegata nei fabbricati prossimali.
il castello di Duino
Le lapidi votive provenienti probabilmente dal luogo sacro del Timavo non si ritrovano unicamente qui, ma anche reimpiegate nei materiali di costruzione della vicina chiesa di San Giovanni in Tuba, voluta dalla famiglia dei Walsee.
L’aretta con l’iscrizione dedicatoria al culto fluviale del Timavo [Temavo /voto/[suscep]to/…], del I secolo, è visibile presso il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann di Trieste, mentre la sua copia è posta a breve distanza da una delle bocche da cui il fiume Timavo erompe dal suo percorso ipogeo.
Correva l’anno 1888.
Un anno straordinario per l’archeologia in quanto a Tunisi veniva inaugurato il museo del Bardo, vero e proprio scrigno di tesori del passato, con la sua impressionante collezione di mosaici romani.
E in quel periodo anche ad Aquileia proseguivano i rinvenimenti dei tasselli di quel mondo antico, celato nelle sue campagne, del quale già da tre lustri s’ordinavano le collezioni presso l’Imperial Regio Museo dello Stato, nato per volere degli Absburgo e ospitato, allora come oggi, nella villa Cassis Faraone.
In quell’anno, un mese esatto prima del Natale, durante alcuni lavori in un vigneto nei fondi Ritter di Monastero, fu rinvenuto un magnifico rilevo di Mitra tauroctono assieme al frammento di un’ara votiva.
Tale rilievo palesava uno stato di conservazione del tutto eccezionale in quanto forse nascosto intenzionalmente a breve distanza dal mitreo che lo accolse.
La storia di questo capolavoro del mondo antico incrociò qualche mese più tardi quella di una delle più importanti personalità del mondo finanziario di Trieste: il barone Carlo von Reinelt.
Già presidente della locale raffineria di petrolio e di una notissima compagnia assicurativa, nel 1879 andò a presiedere la Camera di Commercio di Trieste alla quale, grazie a un prestito personale, permise la costruzione dei magazzini del porto.
Questi acquistò il rilievo ed altri pezzi agli allora proprietari del fondo e, nonostante avesse già accordato la destinazione di quei preziosi reperti al locale Museo di Stato, nell’estate del 1889 decise di spedire il tutto al Kunsthistorisches Museum di Vienna, inaugurato nel 1891 e divenuto scrigno di molte collezioni private imperiali.
Cosa che, come ovvio, suscitò la più viva riprovazione nel mondo accademico locale e non solo.
Il meraviglioso rilievo s’involava dunque per sempre lontano da Aquileia, mentre il suo calco è oggi ammirabile presso il Museo Archeologico Nazionale.
[continua dopo le foto]
In queste foto, scattate all’originale custodito presso il museo viennese, si può ammirare la scena centrale del culto di Mitra, dio della luce o ‘Sol Invictus’, mentre costringe il toro al suolo all’interno di un antro, nell’attesa del segno del corvo per compierne l’uccisione. Il serpente e il cane si nutrono del sangue del toro mentre i due geni, Cautes e Cautopates, ai due lati del dio, personificano l’eterno ciclo di rinnovamento tra vita e morte.
Cautopates, in questa rappresentazione, con la sua fiaccola abbassata rappresenta il tramonto e precede Cautes, l’aurora, suggerendo la tensione all’eterna rinascita.
Al solstizio d’inverno la Natura muore, per poi resuscitare in primavera, sino al solstizio d’estate.
Ed è proprio a Natale che il sole inizia a rinascere, dopo l’apparente pausa che si prende, tramontando e sorgendo illusoriamente nella stessa posizione, prima d’invertire il cammino e procedere nuovamente verso l’equatore celeste, invitto in questa sua ciclica tendenza alla rinascita.
Un fenomeno naturale osservato dalle popolazioni dell’emisfero boreale già dalla notte dei tempi.
Già Marco Aurelio Antonino Augusto, imperatore d’origini siriane che regnò dal 218 al 222 e noto come Eliogabalo, dalla sua carica di sacerdote del dio sole El-Gabal, introdusse a Roma il culto di Mitra.
Circa mezzo secolo più tardi, nel 274, l’imperatore Aureliano decretò che il 25 dicembre sarebbe stato il Dies Natalis Solis Invicti, includendo la data nelle festività dei Saturnali, dedicati alla protezione della fecondità dei raccolti e quindi della famiglia.
Ma fu l’imperatore Costantino, nel 330, a decretare la coincidenza tra la nascita di Gesù e la celebrazione di origini pagane del Sol Invictus.
Il 25 dicembre di quell’anno originava dunque il Natale cristiano, definitivamente ufficializzato da papa Giulio I, pochi anni dopo l’editto di Costantino.
Nel quindicesimo secolo, secondo l’opera predicatoria di San Bernardino da Siena, francescano canonizzato nel 1450 da papa Niccolò V, l’ostia consacrata iniziò ad esser esposta in ostensori recanti forma di sole che irradia raggi di luce.
La commistione tra il culto del sole e quello di Cristo mostra così, in quest’arredo sacro, una crasi fisica che ancor oggi ne rammenta le comuni origini.
Presso una via periferica della frazione montana di Camporosso, a breve distanza da Tarvisio, a seguito di alcuni lavori furono rinvenute due arette con iscrizioni dedicatorie al dio Mitra e un monumento che raffigurava la sua nascita dalla pietra. Erano i primi anni ‘80 e la Sovrintendenza archeologica decise dunque d’iniziare uno scavo per indagare quest’area così fortuitamente rinvenuta. Vennero alla luce due ambienti facenti parte di un mitreo che restituirono frammenti del mondo d’allora, tra i quali molte monete, la cui datazione indica con chiarezza che verso la fine del ‘300 d.C. il luogo perse la sua funzione probabilmente a causa di un incendio. Fu rinvenuto anche uno splendido, piccolo bronzo raffigurante Selene, la Luna, sorella del Sole (Helios) e dell’Aurora (Eos). Nella notte celeste, Luna attraversava il cielo sul suo carro tirato da cavalli bianchi, abbellendosi alla lontana luce del fratello impegnato nel suo sempiterno peregrinare. Un viaggio d’intima unione tra la sua essenza terrena, legata ai ritmi agresti e quella ultraterrena, in stretta correlazione con ciò che ci sarebbe poi stato dopo la morte. Oggi si può ammirare questo splendido bronzo presso l’Antiquarium di Camporosso.
Correva l’anno 1500 quando Leonardo da Vinci fu chiamato in riva all’Isonzo, in una missione mantenuta probabilmente segreta, per ideare un complesso sistema di chiuse a protezione della fortezza veneziana di Gradisca, che avrebbero dovuto rendere inutilizzabili i guadi al nemico più temuto del momento: il turco.
Erano infatti ormai trent’anni che i turchi imperversavano in Friuli, giungendo dalla Bosnia e cercandovi d’entrare attraverso il guado antico di Fogliano, una volta lasciata alle spalle la città murata di Monfalcone.
Difatti, essendo equipaggiati in modo leggero ed adottando una tecnica di combattimento basata sull’agilità, difficilmente avrebbero cinto d’assedio le Terre, ossia le città murate. Domenico Malipiero racconta, nei suoi Annali, che le truppe turche fecero oltre ottomila prigionieri tra i civili in un sol mese, incendiando ogni villaggio del contado goriziano.
Da qui, la decisione della Repubblica di Venezia d’iniziare i lavori per la costruzione di una linea difensiva fortificata, comprendente la fortezza di Gradisca e i forti di Mainizza e di Fogliano.
Il forte stellato di Fogliano fu costruito nel 1474 e quasi interamente demolito circa un decennio più tardi, venuta meno la sua strategicità, considerato il poderoso impianto difensivo della coeva Gradisca. Difatti il 9 settembre 1480 Antonio Loredan, già Capetanio General da Mar della Repubblica di Venezia e membro del Collegio dei Savi, fu inviato in Friuli per un sopralluogo alla linea difensiva sull’Isonzo. Assieme all’avogador Alvise Lando, decise di far demolire la piccola fortezza di Fogliano e di ampliare le difese di quella gradiscana.
Tuttavia, questa singolare struttura difensiva ci parla ancor oggi di sé, essendo giunta sin ai giorni nostri parte dell’originale cinte muraria stellata -se pur in un alzato limitato- attorno alla chiesa di Santa Maria in Monte, a Fogliano.
E’ immaginabile che, nel 1521, questa chiesa sia stata costruita su alcune preesistenti strutture del forte, riutilizzandone i materiali. L’edificazione di questa chiesetta votiva fu voluta da Teodoro del Borgo, comandante dei balestrieri a cavallo della Repubblica di Venezia. Fu scelto questo luogo in quanto Antonio Loredan, proprio nell’anno 1500 e in qualità di luogotenente della Patria del Friuli, concesse queste terre a Teodoro e al fratello Franco per essersi distinti per ardimento in occasione dell’assalto notturno dei turchi all’accampamento di Spilimbergo, un anno prima.
Sopra la porta d’ingresso si trova un’epigrafe che indica la paternità e l’anno di costruzione:
La cinta muraria presenta oggi alcune lacune, dovute ai successivi rimaneggiamenti e restauri, risultando tuttavia ancora intelligibile larga parte dell’originario andamento. Le cronache locali dell’anno 1615 ci parlano di un ripristino delle strutture, riedificate all’interno del perimetro a stella originario. I rimaneggiamenti dei secoli successivi ne hanno definitivamente mutilato la forma, soprattutto a seguito della costruzione d’un’area cimiteriale privata, a ridosso della chiesa.
La chiesa, che oggi occupa il sedime delle antiche strutture del forte, appartiene a una tipologia locale molto diffusa ed è stata restituita nell’aspetto attuale dopo le ricostruzioni a seguito della Grande Guerra, mutila della torre campanaria, crollata durante il conflitto. Al suo interno si possono ammirare alcuni affreschi raffiguranti quattro Santi, tracciati non senza qualche ingenuità tecnica da sconosciuta mano. Le altre rappresentazioni pittoriche, riscoperte anche a seguito di lavori dei primi anni ’20 del secolo scorso, sono invece attribuite all’udinese Giacomo Secante, allievo di Giovanni Antonio de’Sacchis detto il Pordenone, e rivelano per uso del colore e per vividezza delle scene un sentire più articolato, supportato da una tecnica matura.
Questo piccolo scrigno di storia e arte, celato tra la vegetazione carsica della collina che sovrasta Fogliano, merita una visita attenta, cercando d’individuare l’Isonzo e la sua pianura alluvionale, un tempo passaggio quasi obbligato, fortemente presidiato da una Serenissima che, dopo la scoperta dell’America, avrebbe ben presto intuito che il mare non avrebbe più rappresentato la sua fortuna definitiva, facendosi via via ‘Stato da Tera’.
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