Percorso di pietra #9 | La distruzione e la ricostruzione del ponte di Farra

Percorso di pietra #9 | La distruzione e la ricostruzione del ponte di Farra

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Dicevamo dunque che il grande ponte di Farra è ricordato da uno storico del III secolo, Erodiano, che lo menziona raccontando l’episodio che si riferisce alla distruzione della struttura.
Nel 238, infatti, Massimino il Trace, che nel 235 era stato acclamato imperatore dalle legioni renane di cui era il comandante, intenzionato di recarsi a Roma per “fare i conti” col Senato che gli si era sollevato contro e che lo aveva proclamato nemico pubblico, lasciò in primavera la sede di Sirmium in Pannonia (oggi Serbia) e si diresse verso Aquileia.

Sirmium (mediaportal.vojvodina.gov.rs)
denario recante l’effigie di Maximinus ‘il Trace’

Dopo aver superato le Alpi Giulie e in procinto di attraversare l’Isonzo, trovò però il ponte distrutto dagli aquileiesi che cercavano di fermarlo. La tradizione vuole che le truppe di Massimino oltrepassarono ugualmente il fiume grazie ad un improvvisato ponte di botti.
L’imperatore arrivò quindi ad Aquileia e la mise sotto assedio senza esito, ma la sua corsa verso Roma si fermò qui, visto che venne assassinato dai suoi stessi soldati….

Come abbiamo già avuto modo di raccontare nelle precedenti “pillole”, il ponte di Farra venne molto probabilmente ricostruito poco dopo, come suggerisce il reimpiego del materiale lapideo funerario di epoca precedente e come ci conferma il dato storico dell’esistenza del ponte alla fine del IV secolo, all’epoca della battaglia di Teodosio I contro l’usurpatore Eugenio (battaglia del fiume Frigido, l’attuale Vipacco, nel 394) e poi ancora nel 489, alla fine del V secolo, quando Teoderico re degli Ostrogoti ottenne da Zenone, imperatore d’Oriente, l’incarico di sottrarre l’Italia ad Odoacre.
Teoderico e le sue truppe superarono le Alpi Giulie e sconfissero Odoacre probabilmente proprio nei pressi del ponte di Farra.

monete romane con l'effigie di Teodosio I e Flavio Eugenio
monete romane con l’effigie di Teodosio I e Flavio Eugenio

Ma che successe in seguito?
Secondo gli studiosi il ponte era ancora in uso nel pieno Medioevo e solo allora, a quanto pare, venne demolito.
I resti del ponte erano ancora tuttavia visibili alla metà del XVII secolo: allora, infatti, vengono menzionati da un erudito udinese, Enrico Palladio degli Ulivi.
Sul lungo periodo tra il Medioevo e il 1600 le fonti purtroppo tacciono.

I ritrovamenti occasionali e le ricerche compiute in quest’area a partire dagli inizi del ‘900 e che proseguono tuttora hanno aggiunto via via altre tessere a questo mosaico di conoscenze sul ponte romano di Farra.
La nostra mostra “Percorsi di pietra” ha avuto proprio questo scopo: far riemergere dal passato, come da un vecchio album di fotografie, l’immagine di questo eccezionale manufatto, con il suo corredo di vicende grandi e piccole, e inserire queste nel corso della Storia più antica del territorio, così avvincente e ancora così vicina a noi.


Percorso di pietra #8 | Il ponte sull’Aesontius

Percorso di pietra #8 | Il ponte sull’Aesontius

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Un eccezionale esempio dell’ingegneria antica

E veniamo dunque al ponte di Farra.
Come abbiamo visto nel corso del nostro “racconto a puntate”, gli antichi itinerari stradali e la Tabula Peutingeriana segnalano, lungo la via per Emona a circa a 20 km da Aquileia, una stazione denominata Ponte Sonti.

il toponimo riportato sulla Tabula Peutingeriana

Anche se non avessimo altre fonti antiche, testimonianze di epoche più recenti o evidenze archeologiche a confermarlo, già il nome della località sarebbe sufficiente a farci sapere che in quel punto del territorio in epoca romana sorgeva un ponte, edificato per consentire alla strada che conduceva alle regioni orientali dell’Impero di superare il fiume Isonzo nel suo tratto più settentrionale.
I dati archeologici ad oggi disponibili ci suggeriscono che intorno a questo punto strategico  oggi presso la chiesa della Mainizza – in età romana esistessero, oltre alle strutture della stazione di sosta (mansio), un’area sacra al fiume divinizzato e almeno una necropoli monumentale forse legata a un piccolo abitato.
Osservazioni svolte a partire dalla metà del 1700 sui resti del ponte, allora ancora conservati e visibili “nei pressi di Gradisca”, rinvenimenti casuali e ricerche condotte dagli inizi del Novecento su quanto emergeva durante periodi di magra del fiume hanno portato a delle ipotesi ricostruttive dell’eccezionale manufatto, basate anche su quanto ricordato dalle fonti antiche.

Aesontius, Eson; Isonzo; associazione culturale Lacus Timavi; Farra d'Isonzo; Mainizza; archeologia Italia
le basi dei piloni del ponte romano, visibili durante un periodo siccitoso

Il ponte, lungo almeno 200 m, era costituito da 12 arcate, ciascuna larga 12 m, ed era realizzato in blocchi di arenaria.
Nel corso dei decenni vennero recuperati nell’area numerosi blocchi di pietra pertinente all’alzato: tra questi, alcuni elementi di monumenti funerari in calcare riutilizzati nella struttura (quattro di questi li potete osservare nella mostra “Percorsi di pietra”).
Indagini archeologiche più recenti (2010-2011) hanno messo in luce una delle basi dei piloni del ponte caratterizzata, nella parte inferiore, da un sistema di pali in legno conficcati intorno alla struttura. Analisi dendrocronologiche indicano che il legno utilizzato era quello di quercia. Inoltre la datazione radiocarbonica (C14) colloca l’utilizzo dei pali tra la fine del I secolo e gli inizi del II secolo d.C.
Dal momento che la strada, come abbiamo precedentemente ricordato, esisteva già alla fine del I secolo a.C. ed era stata molto probabilmente potenziata a supporto delle operazioni militari condotte da Ottaviano tra il 35 e il 33 a.C., è probabile che un primo ponte, forse realizzato in legno, sia stato sostituito nella prima età imperiale da un’opera in pietra che corrisponde all’imponente manufatto descritto dallo storico Erodiano (170-250 d.C.) distrutto nel 238 d.C.
Sulla base delle evidenze disponibili è possibile ipotizzare che il ponte fu poi oggetto di un rifacimento nel III secolo d.C.
Per questo intervento furono impiegate lapidi, decorate e iscritte, provenienti da una vicina necropoli in uso nei due secoli precedenti e ormai dismessa.


 

 

Settembre in Villa | storia, cultura e musica presso villa Peticia – Staranzano

Settembre in Villa | storia, cultura e musica presso villa Peticia – Staranzano

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Il Comune di Staranzano, in collaborazione con l’associazione culturale Lacus Timavi, la Proloco di Staranzano e Gruppo Area di Ricerca – DobiaLab organizza per giovedì 14 settembre 2023 una giornata dedicata alla cultura, all’intrattenimento e alla musica nell’ambiente unico e affascinate della villa romana detta ‘della liberta Peticia’, a Staranzano.

→PROGRAMMA COMPLETO

 

Settembre in Viila; Villa romana; Liberta Peticia; E-Villae; Staranzano
Settembre in Villa | cartolina scaricabile

Percorso di pietra #7 | La costruzione di un ponte in età romana

Percorso di pietra #7 | La costruzione di un ponte in età romana

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Come abbiamo già avuto modo di dire nella precedente “tappa” di questo nostro Percorso di pietra, i ponti sono considerati le “opere d’arte” degli ingegneri stradali romani, maestri insuperabili nella costruzione di questi manufatti.
Erano elementi essenziali della viabilità antica e testimoniano ancora oggi il passaggio di strade ormai scomparse.
I più antichi ponti romani, abbiamo detto, erano costruiti in legno anche per poter essere velocemente smontati in caso di pericolo.
I primi esemplari in muratura, a una o più arcate sostenute da pilastri (pilae), risalgono alla fine del II secolo a.C.
Un ponte necessitava in primo luogo di basi ben solide e l’edificazione delle fondazioni era di certo l’operazione più impegnativa. Nel caso di fiumi ampi, con una portata d’acqua costantemente elevata, era necessario isolare l’area in cui costruire il pilone.
Marco Vitruvio Pollione, architetto, ingegnere e scrittore vissuto in epoca augustea ce ne spiega la realizzazione nella sua famosa opera De architectura: si costruiva un cassone con una doppia parete di pali lignei, entro la quale erano inseriti sacchi di argilla in modo da creare uno sbarramento a tenuta stagna.
Una volta immerso, il cassone veniva svuotato dall’acqua fino a liberare il fondo su cui lavorare.
La costruzione dell’arco avveniva per mezzo di una struttura semicircolare in legno (centina) su cui erano collocati i conci in pietra squadrata.

uso della centina nel montaggio della volta del ponte

La centina poteva poggiare direttamente a terra o essere fissata sul punto d’innesto della volta, su una sporgenza creata a livello dell’ultimo filare orizzontale del pilone. L’arco si realizzava giustapponendo i conci a partire dalle estremità sino al punto centrale, dove si collocava il concio di sommità (chiave dell’arco).
Per diminuire gli effetti dell’erosione causata dalla corrente, se possibile, i piloni erano costruiti al di fuori dell’alveo del fiume.
Si venivano così a creare delle arcate molto grandi, larghe anche più di 30 metri.
La presenza di un archetto centrale nel pilone permetteva un maggior deflusso dell’acqua in caso di piena.

Nella prossima “pillola” guarderemo da vicino il ponte della Mainizza…sì, proprio lui!


 

la via Iulia Augusta

la via Iulia Augusta

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In queste foto, alcuni tratti della via Iulia Augusta tra Alassio e Albenga (Albingaunum), sulla riviera ligure di ponente.
Costruita per volontà di Augusto per collegare la città di Arelate, odierna Arles a Placentia (Piacenza). Il suo antico percorso è costellato ancora ai giorni nostri da numerose testimonianze, quali cippi, recinti funerari, monumenti e alcuni tratti della via stessa, che corre per un lungo tratto lungo la costa meridionale di quella che un tempo fu la Gallia.


la via Iulia Augusta: clicca per scoprire l’itinerario di visita
Percorso di pietra #6 | I ponti romani

Percorso di pietra #6 | I ponti romani

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…a proposito di ponti…

Costruire un ponte è stato, per chi nel nostro passato ha avuto per primo questa brillante idea, un atto di vera e propria sfida alla natura e agli ostacoli da questa contrapposti alla volontà di spostamento degli esseri umani.
Oggi come allora questa tipologia di manufatti riveste anche un forte significato simbolico: unisce e divide, è sospeso ma al tempo stesso è radicato al suolo, con sfrontatezza permette agli uomini di oltrepassare l’acqua del fiume, elemento sacro in molte culture del passato.
Forse è per questo motivo che nei pressi del ponte della Mainizza si trovava un’area sacra dedicata all’Isonzo in forma di divinità, il dio Aesontius… era necessario tenersi buono il dio e farsi perdonare per l’atto sacrilego!
Non sappiamo molto dei ponti più antichi, ponti sospesi realizzati con fibre vegetali, che erano certamente utilizzati in regioni extraeuropee, nel Sud Est Asiatico, nel Sud America e nell’Africa Equatoriale, o dei primi esemplari in legno d’epoca romana come il ponte Sublicio che era già in uso nel VII secolo a.C.
Le fonti antiche ci raccontano ad esempio di ponti in legno come quello fatto costruire da Cesare sul Reno nel 55 a.C e descritto nel De Bello Gallico.

il ponte di Cesare sul Reno

Di certo i ponti “ad arco” in muratura e poi in pietra dalla metà del III secolo a.C. in poi ci illustrano la straordinaria abilità degli ingegneri romani, acquisita dagli Etruschi, nella progettazione e realizzazione di opere considerate “sacre”, al punto che la massima carica a carattere giuridico-sacerdotale romana, appunto il Pontifex, traeva il suo nome dalle figure istituzionali che in origine avevano curato l’edificazione dei primi ponti sul Tevere.
Con la grande rete delle strade consolari numerosi ponti ad arco a tutto sesto furono costruiti per permettere alle truppe militari ma anche ai traffici commerciali di superare ostacoli come fiumi o valli o terreni impervi. Ma come si costruiva un ponte in età romana?

 


In copertina, la foto del ponte romano del secondo secolo sul fiume Carapelle (Foggia), preservatosi sin ai nostri giorni.
Le immagini sottostanti riportano invece la situazione contemporanea del ponte romano di Ceggia (Venezia), lungo la via Annia.

Di quest’opera, riemersa dalle campagne in seguito a scavi del ’49, si notano in particolare le basi dei piloni di profilo cuneiforme, scolpite nell’arenaria e poggianti su palizzate lignee, conformati per fronteggiare al meglio l’impeto della corrente e minimizzare la creazione di vortici al suo passaggio, garantendo robustezza e stabilità al manufatto.
Una situazione simile a quella esistente in prossimità di San Polo di Monfalcone, presso Ronchi, ove un ramo dell’Isonzo veniva oltrepassato da un ponte di cui ancora oggi esistono alcune testimonianze ➔ Ponte di Ronchi dei Legionari.

Percorso di pietra #5 | Fermarsi a riposare lungo la strada: mansiones e mutationes

Percorso di pietra #5 | Fermarsi a riposare lungo la strada: mansiones e mutationes

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Immaginiamo di star percorrendo, magari a cavallo, una strada romana, per esempio proprio quella che portava da Aquileia a Emona…siamo stanchi, accaldati, la strada è polverosa e sembra non finire mai. Ma sappiamo dalle nostre mappe che presto incontreremo un punto di sosta.
Eccolo lì, proprio davanti a noi!
È una mansio, una specie di piccolo albergo dove potremo riposare, rifocillarci e cambiare la nostra cavalcatura, per poi riprendere il nostro viaggio…a breve distanza si può vedere il grande ponte che attraversa l’Isonzo e che ci consentirà di proseguire lungo la strada.
È il caso di dire che …siamo a cavallo!
Le mansiones, o stazioni di posta, si trovavano lungo le principali strade alla distanza di un giorno di viaggio l’una dall’altra, spesso in vicinanza di incroci o in prossimità dell’attraversamento di un fiume, proprio come la mansio presso il Pons Sonti citata dalla Tabula Peutingeriana. Erano strutture destinate a chi viaggiava con un incarico ufficiale. Dotate di ambienti per dormire, a volte erano riccamente decorate, fornite di impianti termali, e corredate da magazzini e scuderie.  Qui i viaggiatori potevano passate la notte.
A questo proposito ricordiamo che scavi archeologici condotti negli anni Quaranta nell’area contigua alla chiesetta della Mainizza hanno portato alla luce i resti di una struttura a pianta rettangolare lunga 26 metri con tre absidi…
Presso le più frequenti mutationes, a cinque miglia l’una dall’altra, era invece possibile cambiare i cavalli o far ricevere ai propri animali le cure di un veterinario. Altri punti di sosta, come bettole e taverne, fornivano ristoro e riposo ai privati cittadini in viaggio.

[in foto: la posizione approssimata della pianta della mansio, ottenuta sovrapponendo a un’ortofoto contemporanea la posizione degli scavi riportati in una mappa catastale]


ipotesi ricostruttiva della mansio presso Mainizza (Farra d’Isonzo) | immagine: Fondazione Aquileia

Fondazione Aquileia

Percorso di pietra #4 | In viaggio!

Percorso di pietra #4 | In viaggio!

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Abbiamo parlato delle strade romane e in particolare di quella che passava nel territorio di Farra, proveniente da Aquileia e diretta all’odierna Lubiana. Ma come si viaggiava su queste antiche strade e, nel caso della via Aquileia-Emona, che merci transitavano nell’una e nell’altra direzione?

Lungo i percorsi extraurbani ci si poteva spostare naturalmente a piedi o a dorso di cavallo, mulo o asino oppure utilizzando mezzi a trazione animale, come calessi o carretti.
Le fonti letterarie antiche e le raffigurazioni artistiche ci illustrano una grande varietà di tipologie di veicoli in uso, varietà legata al numero di persone trasportate, alla lunghezza del percorso e al servizio che il mezzo svolgeva.
Per molti di questi mezzi, usati per tutta l’età romana, a due o quattro ruote, si ipotizza una derivazione da forme prodotte ad esempio nelle Gallie come il cisium e l’essedum, vetture con cocchiere, o come il carpentum, veicolo di rappresentanza di origine etrusca, carro coperto a due ruote, poi trasformato in un mezzo a quattro ruote per essere usato anche per il trasporto passeggeri e per le merci. In ambito militare il currus a quattro ruote, a otto o dieci raggi, era il mezzo più utilizzato.

Per quanto riguarda le merci che venivano trasportate lungo la strada Aquileia-Emona, sappiamo da Strabone, lo storico greco vissuto tra la seconda metà del I secolo a.C. e il primo quarto del I secolo d.C, che Aquileia, la capitale delle X Regio, era il centro di distribuzione di prodotti di provenienza mediterranea molto ricercati dai mercanti dell’Illiria, come il vino e l’olio, nonché un centro di arrivo, lungo la medesima direttrice, di bestiame, pelli e schiavi. Carri pieni di questi beni giungevano all’emporio di Nauporto e da lì forse le merci continuavano il loro cammino fino a Emona ma per via fluviale.

Con la prossima “pillola” faremo una sosta lungo il percorso…e dove, se non in una mansio?

[foto di copertina: bassorilievo di carro rinvenuto presso il municipio Claudium Virunum , odierna ZollfeldAustria]


Nauporto, nello studio ‘Nauportus -an Early Roman trading post at Dolge njive in Vrhnika’ di Branko Music e Jana Horvat, pubblicato sull’Arheoloski Vestnik
Percorso di pietra #3 | La strada Aquileia-Emona

Percorso di pietra #3 | La strada Aquileia-Emona

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La strada di epoca romana che superava l’ostacolo costituito dal fiume Isonzo grazie al ponte della Mainizza era un’importante arteria stradale che partiva da Aquileia per arrivare all’odierna Lubiana (Emona).
Potenziato già in epoca augustea in occasione della creazione della colonia Iulia Emona, il percorso metteva dunque in comunicazione l’Italia con i territori illirico-danubiani e molto probabilmente ricalcava un tracciato viario più antico, la cosiddetta “via dell’ambra”, lungo la quale questo prezioso materiale arrivava dal Baltico all’Italia settentrionale.

Di questa strada che copriva 77 miglia (circa 114 km) ci parlano le fonti storiche ma anche testimonianze speciali come alcuni itinerari antichi, come l’Itinerarium Antonini e l’Itinerarium Burdigalense; il percorso, con indicazione delle principali tappe di sosta, è anche indicato nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una vera e propria mappa stradale di epoca romana.

Confrontando le informazioni offerte da questi itinerari è possibile stabilire che da Aquileia la strada si dirigeva verso nordest e, costeggiando la sponda destra dell’Isonzo, all’undicesimo miglio arrivava alla mutatio Ad Undecimum, prima stazione posta in corrispondenza di Gradisca. La tappa successiva era Pons Sonti, presso la località Mainizza, punto strategico di attraversamento del fiume sul grande ponte di cui parliamo nella mostra. Da qui la via percorreva la valle del Vipacco fino alla tappa di Fluvio Frigido, (Ajdovščina/Aidussina), e oltrepassava le Alpi Giulie tramite il valico di Piro (ad Pirum) a 867 m; scendeva quindi a Longatico (Logatec), per raggiungere Emona passando per il centro mercantile di Nauporto (Vrnika).

Questa strada fu un fondamentale mezzo di penetrazione, in Italia, dai territori illirici e danubiani che ebbero un ruolo centrale nelle politiche militari del periodo tardoantico.

Ma come si viaggiava su una strada romana?…


Percorso di pietra #2 | Costruire una strada in età romana

Percorso di pietra #2 | Costruire una strada in età romana

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Ora torniamo alla strada di cui parliamo nella mostra, ossia quella che da Aquileia portava a Emona e che transitava sull’Isonzo grazie al ponte della Mainizza: alcuni tratti di questa via, con massicciata in conglomerato di ghiaia e rivestimento in lastre di pietra, sono stati scoperti, già dalla fine dell’Ottocento, nei pressi di Gradisca e di Villesse. Ecco che l’archeologia ci aiuta a capire come erano fatte le strade in età romana!

Quelle più antiche erano state costruite in modo molto diverso dalle strade che avrebbero poi consentito la grande espansione di Roma nel mondo allora conosciuto. I vecchi tracciati con fondo in terra battuta e ghiaia che da Roma portavano ai centri del Lazio erano condizionati dall’andamento naturale del terreno: le strade erano quindi più tortuose e irregolari, mentre verso la fine del IV secolo a.C. nacque la vera e propria ingegneria stradale: ne è l’esempio più antico e noto la Regina Viarum, la via Appia [foto di copertina].

Per le strade di lunga percorrenza e di maggior importanza vennero dunque utilizzate nuove tecniche che prevedevano la definizione di grandi tracciati rettilinei e delle infrastrutture ad essi collegati (ponti, viadotti, acquedotti, trafori…).
Ma come veniva realizzata una strada lastricata? Prima di tutto ne venivano delimitati i margini; una volta scavata la carreggiata, si stendevano strati sovrapposti di materiali: una base (statumen), ossia pietre legate da cemento, al di sopra della quale veniva gettato del conglomerato di pietra tonda e successivamente ghiaia grossolana pressata: infine veniva stesa la pavimentazione vera e propria in blocchi di basalto o lastre squadrate. Dei basoli laterali in fila lungo i margini contenevano la pavimentazione, che al centro risultava leggermente più alta(a “schiena d’asino” diremmo oggi) per far defluire le acque ai lati della strada. Marciapiedi in terra battuta costeggiavano il tratto viario, e pietre miliari poste a distanze regolari informavano sulla distanza già percorsa dalla città di partenza…

Non esistevano solo le strade lastricate: altri tracciati potevano essere caratterizzati dal fondo in semplice terra battuta o ricoperto di ghiaia (via glareata).

Nel prossimo post parleremo della strada che collegava Aquileia a Emona, l’attuale Lubiana…

 

tracciato della via romana, verso Savogna d’Isonzo

 

piccoli tesori in laguna

piccoli tesori in laguna

meno nuove mostra Un mare di risorse

In un maggio inoltrato di qualche anno addietro si è deciso d’inaugurare con una gita in barca una stagione balneare che si preannunciava promettente.
Come meta, i banchi sabbiosi litoranei che da Grado, con intermittenza definita da mareggiate, canali lagunari e dal costante lavorio dei venti, definiscono il paesaggio costiero sino a Lignano.
Durante la passeggiata sul bagnasciuga cesellato da ogni storia che il mare può raccontare, una singolare sagoma rotondeggiante catturò immediatamente l’attenzione: non si trattava certamente d’una geometria studiata dalla natura.
Liberando l’oggetto dall’abbraccio sabbioso, grande fu lo stupore quando si capì di trovarsi al cospetto d’un manufatto sicuramente non recente.
Dopo averlo consegnato alla conservatrice del Museo Archeologico della Laguna di Marano per esaminarlo, si scoprì che avevamo fortuitamente rinvenuto un boccale in ceramica ingobbiata invetriata e dipinta, decorato a motivi floreali e vegetali, databile al XVII-XVIII secolo.

Un piccolo-grande ritrovamento che restituisce l’emozione e il senso della scoperta di un oggetto del passato e che prossimamente sarà musealizzato.


 

 

 

l’acqua di San Giovanni: mito, leggenda e tradizione

l’acqua di San Giovanni: mito, leggenda e tradizione

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La notte di San Giovanni Battista cade tra il 23 e il 24 giugno, al dischiudersi della stagione più calda dell’anno, quando il sole è al suo apice e dà forza e vigore alla natura e a tutte le creature.  È considerata una notte carica di magia e tramandata da centinaia di anni con riti e usanze popolari dove culti e incantesimi si mescolano sotto la luce delle stelle.
Antiche credenze narrano che in questa notte ‘cadde la rugiada degli Dei’, raccontando che il solstizio d’estate fosse la porta attraverso la quale gli Dei facessero passare i nuovi nati sotto forma di rugiada.
I Romani dei primi secoli raccoglievano l’acqua formata dalle gocce di rugiada come liquido miracoloso donato dagli Dei portatori di fortuna, prosperità, benessere e salute.
Altre credenze narrano che le streghe si riunissero sotto un albero di noce e con  i frutti ancora acerbi e pieni di rugiada preparassero un liquore miracoloso. In età precristiana il breve periodo del solstizio che coincide con la nascita di San Giovanni Battista, era considerato sacro e donava particolare forza e potere a tutte le erbe sulla terra bagnate dalla rugiada.
Di tutte queste credenze a noi abbiamo conservato l’usanza di preparare per il 24 giugno l’Acqua di San Giovanni, il cui rituale segue delle precise indicazioni. Durante la vigilia, ossia il 23 giugno, bisogna raccogliere erbe e fiori tipici di questa stagione, possibilmente in luoghi incontaminati .
Si raccolgono ginestre, papaveri, fiordalisi, petali di rosa, caprifogli, menta, iperico, salvia, ruta, malva, lavanda,camomilla, timo, origano, basilico, melissa, artemisia, finocchio e avena.
Al tramonto, tutte le erbe raccolte si immergono in una ciotola colma d’acqua pura che si pone ai raggi lunari.
La luce della Luna e la rugiada mattutina estraggono dai fiori i principi benefici di cui l’acqua si carica.
Con questa, al mattino ci si può bagnare, lavare il viso e il corpo, offrirla a parenti e amici.
La tradizione vuole che quest’acqua profumata preservi dalle malattie, purifichi la pelle, favorisca la ricrescita dei capelli e la fertilità. L’acqua ottenuta si può conservare in una bottiglietta e utilizzare durante l’anno oltre che per la sua magia anche per profumare l’ambiente.
Un’altra usanza antica tipica della notte di San Giovanni sono i falò.
Già i Fenici la celebravano accendendo fuochi purificatori dedicati al dio Moloch e ancora oggi è considerata la notte dei mille fuochi  in varie regioni d’Italia ma anche in Europa.
Carica di magia e presagi questa è la notte che decide i destini dell’intero anno solare, pratiche divinatorie, lavacri di purificazione, falò rituali, raccolta notturna di rugiada ed erbe.
Tra le tante ipotesi formulate sulla notte di San Giovanni è da ricordare quella in cui si afferma che il Cristianesimo integrò alla propria liturgia le due feste pagane del 24 giugno e del 25 dicembre, corrispondenti al solstizio estivo e invernale e che, in epoca romana, con la denominazione di Fors-fortuna e Sol invictus erano state parte integrante della religione del Sole.
Tantissimi i consigli e le prescrizioni legate a questa notte: esporsi alla rugiada curerebbe dal male mentre sarebbe opportuno il non catturare le lucciole, in quanto simbolo delle anime che cercano refrigerio. Raccogliere l’aglio, inoltre, potrebbe aumentare i guadagni durante l’anno, favorendo prosperità e benessere.
Come tradizioni culinarie a San Giovanni si mangiano le lumache, considerate di buon auspicio in quanto le ‘corna’ di queste allontanano le avversità.
In questa giornata si prepara anche il nocino, ottenuto dall’infusione di noci non ancora mature nell’alcol, con l’aggiunta di cannella e chiodi di garofano e lasciato macerare per due mesi.
Filtrato e conservato in bottiglie di vetro, avrebbe la proprietà di donare forza nei momenti di bisogno.

a cura di Mariaelena Sandri

nelle foto di Lucio Nanut e Flavio Snidero, la chiesa di San Giovanni in Tuba, presso le risorgive del fiume Timavo


 

la spada di Monfalcone e il Flos Duellatorum

la spada di Monfalcone e il Flos Duellatorum

meno nuove SottoMonfalcone

Per incrosar cum ti a punta de spada,
De l’altra parte la punta in lo petto t’ò fermada.

L’immagine sopra riportata illustra tecniche di combattimento con la spada brandita a due mani (dal manoscritto Flos duellatorum di Fiore de’Liberi, 1409 – J.P. Getty Museum di Los Angeles)


Nell’anno 2014 son iniziati a Monfalcone i lavori di ristrutturazione del Municipio e si son protratti per qualche tempo: le indagini archeologiche hanno così potuto intercettare parte del mondo medievale occultato dal passaggio dei secoli.
Un mondo che ha saputo restituire una serie di significative testimonianze sulle diverse fasi di frequentazione dell’area, coprendo un periodo di tempo compreso tra il dodicesimo e il diciannovesimo secolo.
Durante l’indagine dei livelli cronologicamente riferibili alla metà del XIV secolo, è stata intercettata l’officina di un fabbro, per via del ritrovamento di numerosi rottami ferrosi probabilmente destinati alla rifusione come chiavi, lame, chiodi…ma non solo…
L’emozione dev’essere stata grandissima nel momento del ritrovamento di una spada d’un metro e venti di lunghezza, in uno stato di conservazione tale da permetterne un mirabile recupero conservativo, nonostante si trovasse in quell’antica bottega in quanto ormai giunta al termine del suo ciclo di utilizzo.
Si tratta di un esemplare diffuso nell’Europa del XIV secolo, di tipologia ‘a una mano e mezza’, cioè un ibrido tra un esemplare a una mano, utilizzato dalla cavalleria, e quello in dotazione ai soldati a piedi, brandeggiabile a due mani.

la spada medievale di Monfalcone

Nello specifico tecnico, se la guardia era la sezione compresa tra l’impugnatura e  lama e ricopriva funzione di protezione per le mani, mentre il pomolo costituiva la parte terminale dell’arma, rivestendo anche questi una funzione potenzialmente offensiva, l’impugnatura o elsa nella spada a una mano e mezza doveva assicurare lo spazio per tenere ambo le mani.
Un’arma decisamente dotata dunque di versatilità e di grande potenziale offensivo.
E che presenta un certo nesso filologico con la nostra  Regione.
Risale difatti approssimativamente al 1410 la pubblicazione del Flos Duellatorum (Fior di Battaglia), un vero e proprio trattato di scrima (scherma storica) scritto dal maestro Fiore de’Liberi da Premariacco e contenente la descrizione di tutte le tecniche di combattimento di quel periodo.
Una descrizione istoriata da numerose illustrazioni, dove l’importanza riservata al combattimento con la spada a una mano e mezza è del tutto rilevante.
Fiore dei Liberi nacque  probabilmente a Civitatis Austriae (Cividale), nel 1350.
Figlio di Benedetto dalla nobile casata dei Liberi di Premariacco, probabilmente appartenne a quella classe nobiliare cavalleresca liberata da vincoli di servitù, ma non di devozione, alla signoria di più alto rango.
Si suppone che il Flos sia stato scritto a Ferrara, ove il magister prestava opera come precettore di scherma presso la corte di Niccolò III d’Este.
Il trattato ci è pervenuto in tre esemplari, due dei quali sono conservati al Morgan Library & Museum di New York e Getty Museum di Los Angeles e sono la versione in prosa del manoscritto, mentre quello custodito presso la collezione voluta dall’esponente della Scapigliatura Carlo Alberto Pisani Dossi e redatto in  versi, rappresenta l’unica versione poetica, anche se giunta ai giorni nostri come copia dell’originale.spada di Monfalcone
La particolarità di questa stupefacente opera consiste nel fatto che le immagini rappresentate e che illustrano i vari momenti dell’ingaggio e del combattimento, sono correlate da descrizioni che  le rendono ‘vive’, facilitando l’apprendimento della base tecnica raffigurata.
Inoltre, è certo che la committenza dell’opera si sia servita, a supporto dei precetti del maestro, di un abile artista che ha saputo restituire delle illustrazioni di grande qualità plastica ed eleganza.
Il Flos Duellatorum, essendo un trattato sulle tipologie di combattimento dell’epoca e non solo su quanto relativo all’utilizzo della spada, vede rappresentate anche quelle a mani nude, con daga, con lancia, a cavallo eccetera e si pone ancor oggi come una pietra miliare a livello mondiale sia per l’apprendimento delle tecniche anche morali a fondamento della nobile arte della scherma, sia per l’approfondimento di un affascinate passato che, come nel caso della spada di Monfalcone, disvelandosi a poco a poco  fa ancora stupire di sé.



Aqui finisse el fior de l’arte de lo armiçar,
Per che modo uno homo l’altro pò contrastar,
Facto per Fior furlano de meser Benedecto;
Chi l’à chognosudo ben pò creder suo decto

 

 

 


 

nuovi tratti dell’acquedotto romano della Val Rosandra

nuovi tratti dell’acquedotto romano della Val Rosandra

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La valle del torrente Rosandra si trova a breve distanza da Trieste ed è frequentata sin dal neolitico, per via della presenza di molte cavità naturali a sviluppo orizzontale.
È attraversata da un acquedotto romano risalente al I secolo dopo Cristo e visibile ancor oggi in alcuni tratti, costruito per canalizzare le acque del torrente dalla fonte, fino all’abitato di Tergeste, con un percorso di circa diciassette chilometri.
Utilizzato a fasi alterne, ancora in pieno ‘700 s’ipotizzò di ripristinarne la funzionalità, tanto era ben conservato.
Recentemente sono state condotte alcune indagini archeologiche, dirette dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia, che hanno messo in luce un nuovo tratto di circa cento metri di lunghezza, di cui riproponiamo qualche immagine.


 

Mitra, nelle ‘Memorie di Adriano’

Mitra, nelle ‘Memorie di Adriano’

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<<Vissi laggiù tutta un’epoca di straordinaria esaltazione dovuta, in parte, all’influenza di un gruppo di luogotenenti che avevo intorno. Provenienti dalle remote guarnigioni d’Asia, erano venuti a conoscenza di strane divinità tra le quali il culto di Mitra, allora poco conosciuto, che mi attirò per qualche tempo con le esigenze di quell’arduo ascetismo che tendeva duramente l’arco della volontà con l’ossessione della morte, del ferro e del sangue che elevava a livello di spiegazione del mondo i banali disagi della nostra esistenza di soldati.
Nulla poteva contrastarmi di più con le opinioni che cominciavo a formarmi sulla guerra.
Ma quei riti barbari che creano tra gli affiliati legami di vita e di morte, lusingavano le fantasticherie più recondite di un giovane impaziente del presente, incerto dell’avvenire e proprio per questo, accessibile agli Dei.
Fui iniziato in una torre di legno e di canne in riva al Danubio, fu mio padrino Marcio Turbo, un compagno d’armi. Ricordo che il peso del toro agonizzante fu lì lì per far crollare il pavimento a graticci sotto cui stavo per ricevere l’aspersione del sangue.
In seguito, ho riflettuto sui pericoli che possono rappresentare per lo Stato, sotto un principe debole, siffatte società segrete e ho finito per infierire contro di esse.
Ma confesso che quando si è in presenza del nemico, esse conferiscono agli adepti una forza quasi sovrumana. Ciascuno di noi era convinto di sfuggire ai limiti della propria umana condizione; si sentiva sé stesso e l’avversario simultaneamente, simile al dio di cui non sa più se muore nelle spoglie di bestia o se uccide sotto forma umana.
Quei sogni bizzarri che a volte oggi mi sgomentano, non differivano poi profondamente dalle teorie di Eraclito sull’identità dell’arco e del bersaglio.
Allora mi aiutavano a tollerare la vita, la vittoria e la sconfitta si mescolavano, si confondevano, erano raggi diversi di una stessa luce solare.
Quei fanti daci che calpestavo sotto gli zoccoli del cavallo, quei cavalieri sarmati abbattuti in seguito nei corpo a corpo, dove i nostri cavalli impennati si mordevano il petto, m’era tanto facile colpirli in quanto mi identificavo con loro. Se fosse rimasto abbandonato sul campo di battaglia, il mio corpo spoglio dalle vesti non sarebbe stato tanto diverso dal loro. Identico sarebbe stato l’urto dell’ultimo colpo di spada.
Ti confesso quei pensieri singolari, tra i più segreti della mia vita, e un’ebbrezza strana, che non ho mai più ritrovata esattamente sotto quella forma.>>

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Passo tratto dal libro ‘Memorie di Adriano’ di Marguerite Yourcenar, scritto sotto forma di una lunga epistola indirizzata dall’anziano imperatore Adriano, ormai al termine dei suoi giorni, al diciassettenne Marco Aurelio, che poco dopo diverrà suo successore per adozione.
Sotto Traiano, predecessore di Adriano,  l’Impero romano raggiunse la sua massima espansione, grazie alle vittoriose campagne militari in Dacia, Armenia, Assiria, Mesopotamia e Arabia.
Nelle foto, il Mitreo di Duino.

Mitra, Mitreo, Mithra; Mitreo di Duino; Adriano; Maria Elena Sandri


a cura di Maria Elena Sandri; foto di Flavio Snidero